Ore 19.30 sono appena tornata a casa. Il cellulare è posato sulla mensola dell’ingresso e vibra. E’ un messaggio di Marta (nome di fantasia), una paziente del mio studio con scritto: “L’essere umano è come una locanda. Ogni mattina un nuovo arrivo. Momenti di gioia, di depressione, di meschinità, a volte un lampo di consapevolezza giunge come un visitatore inatteso. Dai loro il benvenuto e intrattienili tutti! Anche se c’è una moltitudine di dolori, che violentemente svuota la tua casa portando via tutti i mobili, tratta ugualmente ogni ospite con rispetto. Potrebbe aprirti a qualche nuova gioia. I pensieri cupi, la vergogna, la malizia, accoglili sulla porta con un sorriso, e invitali a entrare. Sii grato chiunque arrivi, perché ognuno è stato mandato dall’aldilà per farti da guida” (Rumi).
Per anni Marta ha preferito negare a se stessa di aver perso qualcosa di grande più che sentire il dolore per quella perdita. Da quando ha accolto il suo dolore, ha iniziato a rispettarsi e ad amarsi.
Potrebbe essere scontato per alcuni ma l’esperienza del trauma presenta aspetti che toccano nel profondo ciò che significa essere umani. Il trauma mette ognuno di noi costantemente a confronto con la propria fragilità ma anche con una straordinaria resilienza. Di fronte ad un evento catastrofico molto spesso si cerca di sfuggire al proprio dolore e ognuno mette in atto delle strategie difensive per non sentire. Se non si ascolta il proprio corpo e non si dà importanza alle proprie sensazioni, si rischia di non vivere. Questo è proprio ciò che è accaduto a Marta una ragazza di ventotto anni che ha perso la sua casa e la sua quotidianità nell’evento catastrofico del 2009 a L’Aquila. Quando un evento improvviso cancella in un attimo gli spazi geografici di una collettività, ne distrugge inevitabilmente anche quelli mentali. Marta ha perso il centro di se stessa e ha scelto il silenzio per anni. Ciò che è accaduto non può essere cancellato e il silenzio rinforza l’isolamento maligno del trauma, nascondendo il dolore. La ricerca neuroscientifica dimostra che il solo modo in cui possiamo modificare come ci sentiamo consiste nel divenire consapevoli della nostra esperienza interiore. Bisogna quindi rompere il silenzio solo nel momento in cui si sente di essere nel presente calmi, al sicuro e centrati. Essere ancorati al presente mentre si rivive il trauma apre la possibilità di comprendere nel profondo che gli eventi terribili che sono accaduti, riguardano il passato. Contemporaneamente ai ricordi e alle parole bisogna occuparsi delle tracce del trauma nel corpo, nella mente, e nell’anima: la paura di perdere il controllo, la sensazione schiacciante sul petto, l’allerta rispetto a un pericolo e i flashback. Le emozioni e le sensazioni fisiche che sono rimaste impresse durante il trauma sono vissute non come ricordi, ma come reazioni fisiche devastanti nel presente ed è importante ripartire dal proprio respiro.
Infine diverse ricerche dimostrano che avere una buona rete di supporto costituisce la più potente protezione contro la traumatizzazione. Dopo un trauma acuto come un disastro naturale, i sopravvissuti richiedono la presenza di persone, il contatto fisico e un posto protettivo e sicuro. Il modo più naturale per calmare lo stress coincide con l’essere toccati, abbracciati e cullati.
Ore 19.40 le mie parole a Marta: Il “viaggio notturno in mare” è il viaggio nelle nostre parti interne che sono divise, negate, sconosciute, indesiderate, espulse ed esiliate nei diversi mondi sotterranei della consapevolezza….L’obiettivo di questo viaggio è di riunirci con noi stessi. Questo ritorno a casa può essere sorprendentemente doloroso, perfino brutale. Per intraprenderlo, dobbiamo necessariamente, e per prima cosa, accettare di non mandare nulla in esilio (Stephen Cope).
Dott.ssa Federica Fulvi, psicologa ad approccio umanistico e bioenergetico. Per info 328 2040897